Fabio Stassi – la lettrice scomparsa
14,00€ – Sellerio
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Una ragazza è stata aggredita in una strada solitaria, narcotizzata e rilasciata illesa. La cosa si ripete dopo qualche giorno; questa volta la vittima è la nipote del proprietario della migliore trattoria di Vigàta. Ancora un terzo sequestro lampo e ancora una volta una ragazza. Il commissario Montalbano indaga, e grazie alla sua logica stringente, al suo agire fuori dagli schemi e alla sua capacità di comprendere moventi e sentimenti, supera la soluzione a portata di mano e giunge alla verità.
È scomparsa Marilou, la figlia di Luisa Kakoiannis-Sforza. La signora, un’imprenditrice della moda, ospite fissa delle copertine dei rotocalchi popolari, si rivolge per le ricerche ad Amedeo Consonni, il tappezziere in pensione della Casa di ringhiera. Le è noto grazie al successo del caso investigativo della Sfinge di Lentate sul Seveso (raccontato nel romanzo La casa di ringhiera), ma la ragione è anche di sfuggire ai riflettori del gossip. Oppure c’è sotto qualcos’altro? Il Consonni, con le sue risorse semplici e antiquate, comincia a indagare. E finirà per imbattersi in un’altra donna, non meno ricca e superba, che con la prima condivide il segreto e l’odio.
La serie della Casa di ringhiera si legge come se dal fronte di un palazzo fosse sparita la parete, e si potesse guardare nei vari appartamenti vedendo tutto e tutti nello stesso tempo. Così, sotto la storia gialla principale si ordiscono le altre di molti personaggi, ognuna con il suo colore di genere. Il mistero del manoscritto della professoressa Angela Mattioli (in cui si racconta una vicenda di sesso e denaro realmente vissuta, quella de Il segreto di Angela) che finisce in mani sgradite; un vile ricatto ai danni del muratore Antonio sospettato di un lugubre misfatto; il sogno d’amore dell’anziano De Angelis che finalmente ha trovato un altro oggetto del desiderio, oltre alla sua sfacciata BMW; le scene da un matrimonio di Claudio l’alcolista e Donatella; la morte della ragazza irretita in giri equivoci; le risse da giardinetti del nipotino Enrico, che si trasformano in una burrasca nel quartiere. E, come se il Caso, unico sovrano della Casa di ringhiera, fosse famelico di altri destini, l’avventura e l’equivoco costringono tutti gli inquilini a uscire oltre le mura condominiali, a spargersi nei tanti ambienti della grande Milano. Ognuno spinto dalle proprie necessità a indagare sul caso Kakoiannis-Sforza; la prospettiva si allarga ma è pur sempre come se a indagare fosse la Casa di ringhiera stessa, e tutti i suoi assurdi e realissimi inquilini fossero la squadra di un’unica sarabanda tra il poliziesco e una surreale avventura.
Ne Il caso Kakoiannis-Sforza si manifestano gli scopi letterari di Francesco Recami: raccontare in un modo mai fatto prima, mescolando più generi letterari insieme, finendo per recitare un irriverente e giocoso requiem del poliziesco. Una narrazione che merita di chiamarsi Commedia umana. Realistica, irridente, più o meno nichilista ma con un fondo di empatica connivenza.
Sono otto le «mosse» narrative che Camilleri si concede lungo le otto colonne e le otto traverse della sua geometrica scacchiera del racconto: tra i quattro lati del libro, e nell’ordine chiuso di un romanzo-matrioska che dentro di sé inclina, procedendo di racconto in racconto, di tensione in tensione, sull’asse unico dell’attività investigativa del commissariato di Vigàta. Più che racconti lunghi sono romanzi ristretti quelli che qui si spintonano a vicenda e concorrono al disegno unitario: uno compie un giro, l’altro ricomincia. L’andatura piacevolmente svagata e a punte d’arguzia è un effetto stilistico della restrizione e degli scorci.
Fra gli aliti grassi del mare e il fresco odore salino, a Vigàta si conduce la solita vita fragorosa di ripicche e di rimbecchi; di passioni irritabili, di insofferenze e di strampalerie. La cameriera Adelina e Livia, la fidanzata «straniera» di Montalbano, si annusano sempre da lontano. Catarella, devoto alle cerimonie più smaccate, indossa imperterrito il proprio corpo come una maschera cui aderiscono gesti e mimiche di dialettalità selvaticamente impetuosa e arruffata. Perdurano le moschetterie giornalistiche delle due contrapposte televisioni locali, abilmente strumentalizzate da Montalbano. Il medico legale, Pasquano, solo davanti a una guantiera di cannoli di ricotta è disposto a deporre acrimonie, ringhi, e «cabasisi». Il vicecommissario Mimì Augello conosce il catalogo e le vite tutte delle donne più belle e disponibili del villaggio. L’ispettore capo, Fazio, è il solerte e indisponente scout del «già fatto». L’epitome dei caratteri include una ricca galleria di ritratti, una parata di volti, un ampio esercizio fisiognomico: facce da requiem, volti dilavati, sorrisi che hanno o non hanno morbidezza, grinte e grugni di gaglioffi, musi di bruti.
Il commissario tiene gioco sovrano. Appiana ostacoli. Stabilisce relazioni tra fatti diversi. Deduce e va sicuro. Montalbano è aspramente giovane, qui. È strabordante e pieno di slanci: scontroso talvolta, ma anche disponibile e tollerante. Cauto e insidioso insieme, ricorre a tatticismi, a stratagemmi, a incursioni rese lecite solo dalla necessità del momento. La bassa industria del delitto, le vicende atroci, le storie sordide, gli insabbiamenti legali, gli accordi criminali tra le famiglie mafiose, lo sgomentano senza mai avvilirlo. Montalbano non manca di generosa indulgenza e di un delicato senso di giustizia assai più giusto dell’impersonale rigore burocratico. Qualcuno ha dato fuoco a un albergo. Non ci sono vittime. Deve essere intransigente di fronte a una mattana d’amore? Si imbatte in un professionista del furto, in un correttissimo ladro «a tariffa fissa» che con la sua arte sa aiutare la giustizia: deve negargli la mano che lo tiri fuori dalla necessità del mestiere? Va bandita l’umana «pietà», che non assolve e non condanna?
Ora, Ampelio, secondo lei io mi metto a parlare del caso qui, al bar, di fronte a tutto il paese?”. “Come, tutto il paese? Ci siamo solo noi quattro”. “Appunto” confermò la commissaria». Ma in realtà tra la giovane commissaria Alice Martelli e i quattro vecchietti del BarLume s’è creato un feeling operativo. Il pettegolezzo come sistema investigativo trova una riconosciuta efficacia.
È successo che Vanessa Benedetti è scomparsa. Venuta da fuori, dalla «lontana» Umbria, gestisce col marito Gianfranco, da cui ha divorziato per motivi fiscali, uno zoppicante agriturismo. Un giorno ordina chili e chili di carne, ma i tedeschi suoi ospiti pranzano regolarmente al Bocacito, il ristorante di uno dei pensionati. Poi svanisce nel nulla. Questo basta ai vecchietti per saltare al thriller: Vanessa uccisa dal marito che si è liberato del corpo. Tutte farneticazioni di anziani perdigiorno? A moltiplicare le ipotesi infinite che rimbombano nel BarLume, spunta una svolta imprevista. Atlante il Luminoso, un cartomante di successo, che aveva pronunciato da una televisione privata la sua preveggente verità sul caso Vanessa, viene ritrovato cadavere. Assassinio o suicidio?
Nonostante la canicola a Pineta, i vecchietti del BarLume, con l’interprete investigativo delle loro maldicenze Massimo il barrista, sono in forma smagliante per dissolvere ogni dubbio, con l’arma della battuta letale e della rissa verbale, nel loro nuovo mistero.
Nella pagina di Marco Malvaldi la raffica di battute in un italiano vernacolare che da solo ha effetto esilarante, la quantità di personaggi che ci appaiono come maschere grottesche e vere, l’imbroglio delle situazioni basate sull’equivoco, si fondono in un equilibrio tra comico e poliziesco che ha evidenti radici antiche nella commedia italiana; e che contemporaneamente è capace di affondare l’artiglio del sarcasmo nel costume dei nostri tempi.
Non è, questo, un romanzo d’ambiente; di costume. Non è un romanzo storico. È una potente azione narrativa. Se nel gioco degli scacchi l’obiettivo finale è catturare il re, le modalità operative e di ricerca di questa opzione strategica forzano il silenzio e le tenebre della storia, per affrontare il mistero di un’«ombra», penetrare nelle tante maschere di un volto che si può pensare ma non conoscere, catturare la personalità artificiosa di un protagonista di eventi reali che con infame talento si evolve su se stesso e sotto più nomi si tramuta; e restituire, infine, alle necessità del racconto, il lato oscuro, la metà notturna e fosforica della civiltà dell’Umanesimo raggiante di cultura. Qui Camilleri gioca a scacchi con l’imponderabile. Le strade del suo personaggio si moltiplicano, si confondono, si scambiano l’una con l’altra. Partono dalla giudecca di Caltabellotta, in Sicilia, e lungo il Quattrocento si inoltrano nei labirinti delle capitali, delle corti piccole e grandi, degli studioli umanistici, delle Accademie e delle Università; nella geografia politica della penisola italica e delle remote contrade di là delle Alpi. Il lettore fa il possibile per recuperare il fiato. Una pagina tira l’altra, vorticosamente. Tra vari avvisi di pericolosità e d’orrore, il protagonista del romanzo sprigiona intelligenza perversa, crudeltà e spietatezza. È un ebreo convertito, poliglotta: esperto soprattutto in lingue orientali. Il mondo si arrende alla sua oratoria. E lui aizza alla persecuzione e all’aggressione degli ebrei, predatore dei correligionari di una volta. Si fa traduttore e maestro di letteratura cabbalistica. Mette a disposizione degli umanisti (e fra essi Giovanni Pico della Mirandola) la kabbaláh ebraica. Ha una sua maniera gelida di ricorrere al delitto. E se talvolta la sua temperatura è umana, è perché si riscalda alla fermentazione dei desideri quando si incontra con ragazzi sgarbati o consenzienti, armati sempre di bellezza. Il romanzo segue fino alla sparizione (e non si sa se chiamarla disfatta, morte, uscita di scena, o cos’altro) l’arco della vita del protagonista, che all’inizio è un adolescente chiamato Samuel ben Nissim Abul Farag; e poi una sciarada di nomi, un emblema tricefalo dell’infamia, un enigma espugnabile solo con gli strumenti di una letteratura disposta ad accettare come centro il proprio bordo di finzione, prossima a essere un «falso» d’arte che svela le «falsità» del reale: «un falso, in quanto mistificazione d’una mistificazione, equivale a una verità alla seconda potenza». La frase citata da Camilleri è di Italo Calvino. Ed è la geometrizzazione di un principio barocco passato attraverso l’illuminismo del Consiglio d’Egitto di Leonardo Sciascia.
Il botto del trono fu accussì forti che Montalbano sulo vinni arrisbigliato scantatizzo di colpo, ma per picca non cadì dal letto per il gran sàvuto che aviva fatto. era chiossà di ‘na simanata che chioviva a retini stise, senza un minuto di ‘nterruzioni. Si erano raprute le cataratti e parivano ‘ntinzionate a non chiuirsi cchiù.
Sono giorni di pioggia a Vigàta, quegli acquazzoni violenti e persistenti che non danno requie, fiumane d’acqua scatenata che travolgono case e terreni lasciando dietro di sé un mare di fango. È in una di queste giornate che un uomo, Giugiù Nicotra, viene trovato morto in un cantiere, mezzo nudo, colpito da un proiettile alle spalle. L’indagine parte lenta e scivolosa, ma ben presto ogni indizio, ogni personaggio, conduce al mondo dei cantieri e degli appalti pubblici.
Si sono aperte le cateratte del cielo. I tuoni erompono con fragore. Nel generale ottenebramento, e sotto la pioggia implacabile, tutto si impantana e smotta. Il fango monta e dilaga: è una coltre di spento grigiore sulle lesioni e sulle frane. La brutalità della natura si vendica della politica dei governi corrotti, che non si curano del rispetto geologico; e assicurano appalti e franchigie alle società di comodo e alle mafie degli speculatori. A Vigàta dominano le sfumature opache e le tonalità brune delle ombre che si allungano sull’accavallato disordine dei paesaggi desolati; sui lunari cimiteri di scabre rocce, di cretti smorti, e di relitti metallici che sembrano ossificati. Questa sgangherata sintassi di crepature e derive ha oscuri presagi. E si configura come il rovescio tragico dell’allegra selvatichezza vernacolare di Catarella, che inventa richiami fonici ed equivalenze tra «fango» e «sangue»; e con le confuse lettere del suo alfabeto costruisce topografie che inducono all’errore. Del resto, macchiate di sangue sono le ferite fangose del paesaggio; e l’errore è consustanziale al labirinto illusionistico dentro il quale i clan mafiosi vorrebbero sospingere il commissario Montalbano per fuorviarlo, e convincerlo che il delitto sul quale sta indagando è d’onore e non di mafia. La vicenda ha tratti sfuggenti, persino elusivi. Un giovane ferito a morte ha inforcato una bicicletta e ha pedalato con fatica in quella solitudine di fango. Sua moglie è scomparsa. E con lei un presunto zio, che non ha nome, non ha volto, e non lascia impronte. Ci sono attentati, intimidazioni, delazioni, false confessioni e depistaggi spregevoli. Scorre altro sangue. E c’è una casa dei misteri. Montalbano stenta a farsi un quadro generale della situazione. Conduce le indagini con l’indolenza di chi sbriga una pratica burocratica. È in preda a una morbida malinconia. Pensa con tenerezza e apprensione a Livia lontana, al loro ménage, alla mestizia che asserraglia la donna. Prevale alla fine la saggezza dell’istinto; lo scatto leonino, che gli dà esattezza di visione. Ha nella mente un «romanzo»: il «romanzo» di un segreto, che i clan mafiosi custodiscono e occultano nella lutulenta piramide delle loro criminali macchinazioni. Capisce che deve fare «un buco nella parete della piramide», e decapitarla. Ci riesce con uno «sfunnapedi» o «trainello». Dimostra così la verità degli slarghi narrativi della sua «bella storia», del suo romanzo, della sua «opira di pupi». Intanto la natura si risveglia. Di tra le rughe polverose e le spaccature del fango essiccato, fanno capolino nuovi ciuffi di luminosa erba fresca. Montalbano può correre adesso all’abbraccio con Livia, a Boccadasse.
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